Corrado Abate "A Volte Chimica A Volte Fisica" 09|2009












































La chimica e la fisica

Dacché ho cognizione autonoma e non condizionata dell’esistenza, ho sempre considerato la Chimica e la Fisica come i due pilastri che sorreggono il Tutto. Ogni fenomeno, dalla gravitazione dei corpi celesti all’amore, dalle malattie alle maree, è riconducibile a queste due forze. Da loro tutto è generato e tutto dipende. Crescendo mi sono attaccato sempre più tenacemente ad una visione scientifica del mondo e di ciò che lo governa. Non sono mai riuscito a trovare nulla di altrettanto credibile, e l’esasperazione di questo mi ha più volte portato ad una sorta di scientismo esistenziale, ad una concezione radicalmente nichilista: nasco poi muoio. Come posso trovare stimoli per vivere? Il mio approccio a queste due scienze risale alla mia infanzia e alla mia congenita curiosità. Sono stato un bambino alla costante ricerca di risposte, ossessionato dai troppi perché inspiegabili, con la necessità e il desiderio di trovare qualcosa (o qualcuno) in grado di farmi comprendere lo scibile e l’ignoto. Il mondo che tanto mi incuriosiva e meravigliava non poteva avere senso se non riuscivo a penetrarlo (o assimilarlo) completamente. Non ero un bambino precoce, ero semplicemente uno che andava fuori di testa se non capiva il perché delle cose. “E’ così e basta” era una risposta che mi creava nevrosi e sconforto. Ho avuto la discutibile fortuna di avere un padre che ha sempre assecondato la mia voglia di provare, di sperimentare, di far reagire, esplodere e fondere gli elementi. Ora capisco che lo ha fatto più per suo divertimento personale che per spirito di insegnamento dal momento che, ancora oggi che non sono più un bambino, appena può mette mano ai miei divertentissimi esperimenti. Crescendo ho cominciato a capire un po’ di più le enciclopedie e i testi che trovavo in giro per casa. Poi è venuta la scuola, ma imparare non era più così divertente: poco pratico e troppo teorico. Chimica e Fisica sono materie di studio noiosissime. Quando esplodono, o spaccano, o prendono fuoco, allora sì che sono divertenti, è solo lì che, bambino o adulto, mi riescono a emozionare. Ecco perché non le ho mai studiate. Credo che non aver avuto una formazione scientifica adeguata abbia permesso di trasportare Chimica e Fisica nella mia ricerca artistica. Se le avessi conosciute in maniera accademica e razionale difficilmente sarei riuscito ad adattarle alla concezione visionaria che ho di un’opera.

Un bagaglio scarno di sapere e la voglia di continuare a meravigliarmi; man mano che il mio lavoro ha preso forma mi sono reso conto che il mio approccio alla Chimica e alla Fisica è simile a quello che avevano gli alchimisti. Nemmeno loro avevano fondamenti, tutto era sperimentale ed empirico. Non avevano la precisione asettica dei ricercatori moderni. L’alchimia era una questione filosofica. Mischiava la Chimica e la Fisica con l’astrologia, la numerologia, la medicina, il misticismo, la religione, l’arte. L’alchimista voleva arrivare a un sapere supremo (sommo sapere) e cercava soluzioni ai problemi dell’uomo, come io cerco da sempre risposte; le varie fasi che componevano il processo alchemico sembrano simili al mio processo creativo. Si basano entrambi sulla ritualità. Quando lavoro i gesti mi vengono fuori come se fossi in trance: inconsci, atavici e incontrollabili come in una danza mistica. E poi c’è la sofferenza: per l’alchimista aveva una valenza vera e propria nel compimento delle fasi del processo. Io, come lui, spasimo. Il patimento del mio corpo, le martellate, le ustioni con la polvere nera, le schegge di legno e di ferro piantate nella pelle, le inalazioni, le intossicazioni sono una sorta di martirio, il mio sacrificio furibondo per la comprensione, per avere delle risposte. Grazie a questo parallelismo, o forse solo per paura del nulla, mi sono avvicinato ad una visione più mistica di quelli che continuano a rimanere i miei pilastri, intuendo nella scienza una forza che concettualmente, nel profondo, non si discosta molto dalla religione.



La Materia
Nasco nel legno, da sempre il mio elemento, la mia materia. L’ho studiato attraverso l’esperienza dei vecchi, falegnami o contadini che fossero, nelle leggende e nella mitologia, nella botanica. Crescendo con una falegnameria sotto casa dove andare a giocare di nascosto manipolare il legno è stato il naturale sfogo ai miei primi bisogni espressivi, quando matite e pennarelli non mi bastavano più. Da bambino vivevo in mezzo ai boschi.Non mi piaceva giocare a pallone, io mi divertivo con gli alberi, sugli alberi, negli alberi. Mi infondevano sicurezza, così enormi, così forti, così saggi. Erano più interessanti degli altri bambini.
Le conoscevo a memoria le piante dei miei boschi, ne scorgevo le impercettibili mutazioni ad ogni cambio di stagione anche se rimanevano apparentemente uguali, e paragonando il loro corpo al mio, iniziavo a capire quanto fugace fosse l’esistenza umana.
Poi ho iniziato a costruire mobili, a lavorare con il legno per tirar sù quattrini, imprecando dietro a quelli che sembravano difetti,le crepe, i nodi, le parti che non assorbivano bene la tinta, le venature strane e deformi. Imparavo quelle reazioni che anni dopo avrei applicato ai miei lavori recenti. Eppure per tanto tempo non ho mai pensato al legno come base per il mio lavoro e la mia ricerca: lo vedevo troppo legato alla tradizione scultorea e figurativa. Non mi piace antropomorfizzare un materiale con una spiritualità così profonda. Il legno è vivo, anche da morto. Nasce con il sacrificio di un albero, che con le radici ha vissuto e prodotto ossigeno. L’albero è elemento vitale e nella polpa della sua memoria rivedo questi processi, sento che ha fatto parte di questo sistema che mi tiene in vita. Il legno ha una memoria: la prima cosa che faccio prima di iniziare un lavoro è contare i cerchi del tronco che userò. Attraverso lo spessore dei singoli anelli riconosco le annate secche da quelle piovose e mi perdo a pensare cosa l’albero abbia vissuto di quegli anni: quanta storia, guerre, carestie, morti abbia visto; a quanti drammi umani o sociali abbia fatto da personaggio comprimario, silenzioso e presente nei secoli. Piano piano ho iniziato a conoscerlo sotto un altro aspetto, ad avere con lui un rapporto più intimo e infantile. Così ho imparato che il legno ha un’anima, è un amico saggio a cui raccontare la vita e chiedere consiglio. Non più materia passiva pronta per esser modellata, ma essenza da interpretare, da adattare alle tante condizioni umane; così facile paragonarla a me, alla mia esistenza, ai miei pensieri. Mi piace penetrare la materia, scaricare la rabbia nel legno con gesti forti, faticosi e dolorosi, senza precisione. Proprio come le pulsioni umane fanno.
Lo dilato, lo rompo, lo martello, lo picchio contro oggetti, lo strappo, lo annuso, lo mordo, spesso lo mangio per assimilare la sua essenza. Lo sfido in una lotta fisica: la mia forza contro la sua tenacia, e molte volte mi punisce ferendomi il corpo.